martedì 5 aprile 2011

Dell'aiutare Ciak #2

"Non urlare per chiedere aiuto di notte. Potresti svegliare i vicini". Stanislaw Jerzy Lec

Per aiutare gli altri bisogna saper affrontare le proprie stesse miserie. La richiesta d'aiuto innesca, pertanto, un processo di cambiamento reciproco dove ciascuno è chiamato a cambiare se stesso, per sè o per l'altro. C'è una spiegazione fisiologica della capacità dell'uomo di aiutare l'altro: i neuroni specchio. Questi neuroni si attivano infatti quando osserviamo qualcuno compiere un'azione che noi stessi conosciamo e abbiamo compiuto in passato. Un vero e proprio rispecchiamento , come nel gioco dei bambini di imitare le smorfie. Così se guardiamo la foto in alto a sinistra attraverso il sistema specchio si attivano gli stessi neuroni che entrano in funzione quando tendiamo una mano. I neuroni specchio sarebbero alla base dell'empatia ma, per aiutare davvero qualcuno, bisogna anche saper dosare la giusta dose di rispecchiamento e di epochè. L'epochè è intesa come quella capacità di mettere tra parentesi le proprie esperienze e sospendere il giudizio sull'altro. Tutti questi aggiustamenti all'altro richiedono dei sacrifici, anche dolorosi, nonchè una massiccia dose di esercizio. Bisogna affondare nella miseria della propria anima e poi saperla strappare, spogliandosi del proprio egoismo e del pregiudizio. Infine il beneficio di un pieno e soddisfacente contatto con l'altro. Se nella mia esperienza non esiste il dramma che l'altro porta in sè non è possible un rispecchiamento ma occorrà una buona capacità di immedesimazione. Da parte mia ho risalito più volte gli inferi, so cosa significa avere paura di impazzire o temere che il sole non sorga più ad illuminare il mattino. Queste angosce che riguardano il senso stesso dell'essere in vita hanno oscurato paure meno arcaiche e più reali come quella dell'abbandono. Paure che riguardano il vivere hanno soppiantato finalmente le paure del morire. E io torno ad essere quella che sono e ad essere riconosciuta tale.

2 commenti:

  1. Prima di tutto l'umiltà. Ogni volta che leggo una delle tue lettere non posso non sorprendermi della dose di umiltà massiccia che caratterizza il tuo essere. Mai hai mostrato all'altro la tua approfondita conoscenza e scienza rispetto ad alcune questioni. Lo ritrovo solo nel tuo scrivere questo superamento dell'umiltà che ti auto-imponi. Meglio così, almeno ritrovo una parte di te che non conosco nella vita di tutti i giorni.
    Dell'aiutare, aiutarsi e immedesimarsi non posso scrivere. Sarebbe un processo troppo doloroso, sono ancora profondamente immaturo da questo punto di vista e non riesco a elaborare con me stesso certe questioni. Mi pongo solo alcune domande. Le condivido con te.
    Ma fra le paure del vivere non c'è anche quella del morire? Fra le paure dell'amare non c'è anche quella dell'abbandonare e dell'essere abbandonati?

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  2. Sicuramente è nei vivi la strada dei defunti e non c'è amore che non vi faccia ombra l'abbandono. Nella lettera però facevo distinzione tra le paure del morire e le paure del vivere. Le paure del morire sono molto arcaiche si agganciano al nostro stesso senso di essere al mondo, non sapere se il corpo mantiene la sua unità o si sgretola, non sapere se il proprio sentire ci appartiene o è di un altro, nostro simile, non aver fiducia che al buio faccia seguito la luce di un nuovo giorno... possiamo anche dire che queste paure sono folli o confinano con la follia. Le paure del vivere sono più concrete, nevrotiche se vogliamo. La paura di abbandonare o di essere abbandonati presuppone la capacità di un legame che da questa paura è scosso... ed è per questo le annovero tra le paure del vivere.

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